Gli orientali cercano il raccoglimento e l'equilibrio, l'azione misurata che esprime e alimenta la saggezza di vita. Nei secoli hanno sviluppato dei metodi, in Giappone li chiamano vie, "do". Il "do" che noi occidentali conosciamo meglio è il ju-do, la via della gentilezza (lo sapevate? Per superare l'esame di cintura gialla bisognava sapere a memoria "Il judo è come l'acqua..."). Ma quello che mi ha sempre affascinato è il kyu-do, la via dell'arco.
Mi avevano spiegato, una volta, che nel kyudo non si tratta semplicemente di imparare a lanciare le frecce con precisione, ma di comprendere l'essenza della vita. Nel momento in cui l'arciere si concentra sul bersaglio, con l'arco ben teso, deve cercare la profonda unione che c'è tra se stesso, la freccia e il bersaglio. Quello diventa un momento mistico. Se la freccia si conficca nel centro è soltanto come manifestazione visibile della comunione che si è creata tra occhio, mano, respiro, bersaglio, freccia, aria, tempo...
Solo un anno fa ho avuto la mia prima occasione di imbracciare un arco. Ero emozionato, per me era come entrare in un mito. Non l'ho detto ai miei amici, ho cercato di dissimulare, anche se non credo di essere riuscito a scherzare molto. Avevo notato che gli altri facevano fatica a tendere l'arco e già questo mi preoccupava: se non ci fossi riuscito? se, anche riuscendoci, avessi tremato per lo sforzo?
Per questo mi è piaciuto il post di Monasterio, perché la sua metafora non riguarda il tirare con l'arco in generale, ma quel momento specialissimo in cui facciamo tutto quello che dipende da noi prima di scoccare. È proprio come insegnano i maestri di kyudo. In quel momento non esiste più niente altro che tu, l'arco e il bersaglio. Si ferma la respirazione, il silenzio è assoluto, non si sente né stanchezza né emozioni né il trascorrere dei secondi. Tu sei la freccia, tu sei il bersaglio.
Ora, grazie a don Enrique, capisco che questa è una metafora della vita. Nasciamo con un bersaglio - che è Dio - e siamo arciere, arco e freccia. Tutta la vita non è altro che un momento di sospensione mentre prendiamo la mira, prima di scoccare (scoccarci?) E ci sono momenti in cui ce ne accorgiamo e assaporiamo questa tensione, e comprendiamo il senso di tutto lo sforzo; e mi sembra un peccato che in tanti altri momenti non lo capiamo e perdiamo di vista il bersaglio e ci distraiamo ad ascoltare il vento, o le chiacchiere dei nostri compagni, o un trascurabile dolorino al braccio.
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