28 settembre 2007

Prete di compagnia

Trovandomi già da un po' a corto di idee, mi accontento di tradurre un bel post dal blog di Enrique Monasterio. Spero che vi piaccia.


Accadde così tanti anni fa che non ricordo nemmeno più il nome del protagonista. Chiamiamolo Antonio. Ricordo invece che si definì un “maestro nazionale, repubblicano e anticlericale. Fu “il mio primo moribondo”. Se non sbaglio era la fine del 1969 o inizio 1970.

Suo figlio Jaime mi aveva chiesto di andarlo a trovare per vedere “se riesce a farlo confessare e metterlo in pace con Dio”.

Io ero nervoso, con la logica preoccupazione di un novello sacerdote che non si era mai trovato in una simile situazione. Pensavo e ripensavo al modo migliore per affrontarlo e parlai con Eduardo, un sacerdote veterano e amico, per chiedergli consiglio. Lui rise:

– Non essere sciocco. Sarà tutto molto più semplice di quanto immagini. Vedrai.

E lo vidi. Presi a prestito gli oli e il rituale da una parrocchia vicina.
Il malato mi accolse con una certa freddezza. Gli feci soltanto una domanda e lui si lanciò in un discorso storico-filosofico-politico che sembrava interminabile. Non gli risposi, fra l’altro perché non mi veniva in mente niente. Alla fine mi chiese di passargli l’acqua, bevve, e mi disse che era consapevole di stare per morire e che era arrivato il momento di affrontare la verità.

Ricevette i Sacramenti con una devozione sorprendente. Festeggiammo con una bottiglia di champagne caldo e mi chiese di tornare ogni tanto… “finché non parto per l’ultimo viaggio”.

– Ha paura della morte?

– Ho sempre avuto paura della morte, ma da quando mi sta addosso ne ho meno rispetto. Suppongo che fra me e Dio ci sia stato più di un malinteso, ma quando ci incontreremo chiariremo tutto.

Affermazioni così mi sconcertavano un po’, ma almeno ebbi la prudenza di limitarmi ad ascoltare senza fare rettifiche teologiche.

Dopo quella prima volta lo andai a trovare quasi tutti i giorni. Ripeteva continuamente le stesse storie.

– Te lo avevo già raccontato? È che non so più dove ho la testa.

Ovviamente Antonio mi diede del tu fin dal primo momento. Mi trattava come un figlio inesperto che bisogna preparare alla vita.

Un giorno vennero a fargli visita dei parenti da Alicante, e lui mi presentò:

– E questo è il mio amico Enrique, il mio prete di compagnia.

Lì per lì l’espressione non mi piacque molto, ma poi ho capito che definisce molto bene il compito del sacerdote. Quando ci tocca preparare qualcuno per l’ultima battaglia della sua vita, noi facciamo compagnia. Solo questo. Non c’è compito più umile né più semplice.

È grande essere sacerdoti, sicuramente. È fantastico essere spettatori privilegiati di questo miracolo che Dio ripete ogni volta che gli lasciamo uno spazio per arrivare al fondo dell’anima.

Uno spettacolo così grande che alla fine ti viene voglia di applaudire.

Nessun commento: