06 marzo 2013

Noi, i forti

UN GIOVANISSIMO RILKE, momentaneamente infatuato dalla lettura di Nietzsche, scriveva nel 1896:
«Colui che si adora come il Messia, fa del mondo intero un ospedale. I deboli, gli infelici, gli ammalati egli li chiama suoi figli, i suoi cari. E i forti? (...) Ma allora come potremo noi salire, noi, i forti, se diamo a prestito la nostra forza agli infelici, agli oppressi, ai miserabili indolenti, sprovvisti di senso e di energia? Cadano invece, muoiano, soli e miserabili. (...) Pochi uomini, ma grandi, costruiranno il mondo con le loro braccia vigorose, muscolose, dominatrici.»

R.M.Rilke, Gli Apostoli; cit. De Lubac, Il dramma dell'umanesimo ateo, 124
L'obiezione è provocatoria ed esige una risposta: cosa ha Gesù da proporre ai "forti", ai magnanimi? Da sempre la Chiesa propone modelli di santità che non corrispondono granché agli aggettivi appena riportati: non sembrano né deboli né infelici né indolenti né privi di senso.

Giovanni Paolo II, quando chiamava i giovani "sentinelle del mattino" e li lanciava ad essere testimoni di Cristo per i loro coetanei, non si rivolgeva certo ai pusillanimi, ai timidi, ai "buonini". Stava proponendo una "traduzione aggiornata" del "violenti rapiunt" del Vangelo.

Anche Benedetto XVI, con il suo stile più accademico e meno travolgente, ha difeso la verità con la forza e l'indipendenza di un gigante del pensiero. Con buona pace di Nietzsche, direi che anche per "i forti" c'è un posto nella fede cristiana.
«Tu, uno qualunque? Tu... del gregge!? Ma se sei nato per essere un leader! In mezzo a noi non c'è posto per i tiepidi. Umìliati, e Cristo ti accenderà di nuovo con fiamme d'Amore.»
San Josemaría, Cammino 16

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