02 aprile 2017

Mortale, immortale, eterno

PER POTER MORIRE prima bisogna essere vivi. Gli esseri inanimati non possono morire: sono immortali. Più o meno così Hannah Arendt inizia la sua riflessione sull'immortalità nella sua opera filosofica più importante: Vita activa. La condizione umana. Ma ovviamente c'è di più.

Questa filosofa (più famosa per La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme) sostiene che, in un certo senso, solo l'uomo muore. Gli altri esseri viventi hanno un'individualità così debole che la morte del singolo è trascurabile. Le margherite sono "immortali" perché non è la singola margherita che conta, ma la specie che si perpetua nel succedersi degli individui. Qualche animalista potrebbe risentirsi se si applica questo ragionamento anche agli animali, ma la Arendt lo fa. Il piccione è immortale perché nessun piccione singolo è particolarmente diverso da qualsiasi altro. (La "vera morte" del piccione sarebbe l'estinzione della specie, ma la Arendt non prende questa direzione nel suo ragionamento). Insomma solo l'uomo è mortale, perché solo l'uomo è veramente vivo.

Questa unicità è gloriosa. L'eterno ripetersi dell'uguale (rubo l'espressione a Nietzsche) in tutti gli ambiti della realtà, viene interrotto da un unico elemento di discontinuità che è l'uomo mortale. Se l'immortalità è un cerchio (che non finisce mai perché ritorna sempre su se stesso), il mortale è un segmento di retta, con un inizio e una fine. Unico, irripetibile proprio nel senso che non si ripete. Per questo ho scelto l'immagine di questo post (purtroppo è falsa, l'ho costruita io): le stelle descrivono nel cielo la loro perenne rotazione, la stella cadente piomba rettilinea – attirando la nostra attenzione – e poi scompare.

L'uomo può cercare l'immortalità. Può pensare di imitare quella delle altre creature: inseguendo il miraggio di una vita sempre più lunga... ma quanto? Oppure perpetuandosi nei figli... ma quanti vengono ricordati oltre la seconda o terza generazione? Oppure ci si dissolve nell'omologazione alla massa. È un po' come pensare di farsi piccione: sempre più uguale agli altri piccioni, al punto che, quando muore, nessuno se ne accorge, magari nemmeno l'interessato, se il suo sforzo di omologazione è riuscito a sufficienza.

Mi sono chiesto: se l'immortale è un cerchio e il mortale una retta, Dio che cos'è? Forse possiamo dire che è il cielo (la superficie, nella metafora geometrica), che contiene tanto le stelle fisse come le stelle cadenti? Oppure è il punto: interamente presente in tutta la sua totalità tutta compresa in un unico qui adesso. In realtà ci vorrebbe qualcosa che unisca le caratteristiche del punto e dell'intero spazio: un unico qui adesso che abbraccia tutto l'universo e tutto il tempo.

Dicevo che l'uomo può cercare una parvenza di immortalità (la Arendt parla anche della relativa immortalità della fama), oppure può cercare l'eternità. Perché l'immagine della stella cadente va bene per descrivere la nostra vicenda terrena, ma se crediamo nell'anima immortale, la figura giusta diventa la retta: va avanti senza mai tornare su se stessa e senza fine. E se non possiamo aspirare ad espanderci in tutte le dimensioni (ma le opere dello spirito: pensiero, creazione, amore, preghiera... sono "espansive"), possiamo però trovare l'eternità nel qui adesso.

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