25 febbraio 2008

Non è un paese per... buoni

Da tempo avevo intenzione di appuntare due idee sul romanzo Non è un paese per vecchi di Cormac McCarthy. I quattro premi Oscar assegnati al film mi fanno finalmente decidere.

La trama (tranquilli, niente spoilers!) è quella di un inseguimento a tre: un poliziotto "buono" – di quelli che soffrono per le cose brutte che sono continuamente costretti a vedere – che insegue un killer spietato, ai limiti dello psicopatico, che a sua volta insegue uno che ha messo il naso – e anche le mani – dove non doveva. Il tutto con molti morti, molto sangue e una crudezza psicologica che lascia senza fiato.
Mi dicono che l'autore è un credente, che il messaggio vuole essere positivo. Di buono ci trovo i diversi spunti a favore del matrimonio, presentato come ciò che dà senso e sostegno alla vita. Inoltre, più o meno ad ogni capitolo, c'è un intermezzo con le considerazioni del poliziotto che sono sempre molto sagge (una è quella dell'abbeveratoio, che ho già riportato).

Ma sull'altro piatto della bilancia va messo tutto il negativo, ed è molto. Provo a spiegarmi.
1. Il male viene compiuto con molta serietà ed abnegazione, mentre i "buoni" tendono a stare a guardare dispiaciuti. Fanno, sì, quello che possono, ma è poco e si trovano abbastanza impotenti. Il mondo è dei cattivi e i buoni non possono farci nulla.
2. Il caso ha un ruolo dominante nella storia, minandola nella sua struttura. Si capisce che c'è un messaggio, però la narrativa ha le sue esigenze, e se le svolte importanti di una storia avvengono per caso, quella non è una storia e il lettore si indispone.
3. Alcuni eventi negativi della storia sono gravemente crudeli verso il lettore. Ci sono personaggi veramente belli e uno ci si affeziona. Ma una volta che ci si è affezionati non si tollera che succedano certe cose.
4. Certe efferatezze sono proprio di cattivo gusto, da splatter movie, come l'arma preferita dal killer o momenti in cui si ferma compiaciuto a osservare i particolari che segnano lo scomparire della vita nelle sue vittime.

Una cosa è certa: uno conclude la lettura arrabbiato con l'autore. Arrabbiato perché niente va come vorremmo, perché scrive maledettamente bene, perché ci ha tenuti incatenati per tutto il tempo ad una storia che ci fa soffrire tutto il tempo.

Il romanzo può piacere ad alcuni e veramente sono indeciso se consigliarlo o sconsigliarlo; ma il film temo che sarà del tutto improponibile.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

La strada, dello stesso autore, ha caratteristiche analoghe. Bello lo svilupparsi del rapporto col figlio, il suo consolidarsi nel finale tragico e speranzoso. Ma lungo tutto il libro, situazioni di una violenza, di una tristezza, di un pessimismo da torcere le budella.
Anche qui il gioco del caso: i pochi momenti di sollievo e di salvezza dalla morte che i protagonisti attraversano arrivano "out of the blue" (e data la situazione lo si potrebbe capire), e a volte contro ogni logica, infastidendo. Ho avuto in realtà il sospetto che quei momenti di temporanea pace siano lì per dare un briciolo di conforto ad un lettore stremato da tanto orrore.

Don Mario ha detto...

Ripensandoci, credo che si potrebbe leggere un messaggio di questo tipo: viviamo in un mondo assurdo e crudele e i tre personaggi rappresentano tre possibili modi di affrontarlo.
Il killer si muove in questo mondo con crudeltà e seguendo una sua logica assurda.
Il fuggitivo "scende a patti": fin dal primo momento si rende conto che prima o poi avrebbe dovuto uccidere per non essere ucciso. Cerca di mantenersi fedele ai suoi principi ma, come previsto, si trova anche a fare cose che non avrebbe voluto.
Lo sceriffo "fa quello che può": si rifugia negli affetti familiari e nel buon senso, cercando di compiere il suo dovere con onestà e coraggio, ma sapendo di poter fare ben poco.
Non so se avrò voglia di leggere La strada.